Era l’inverno del 2019 quando l’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva ventilato l’ipotesi di chiudere i negozi di marijuana light in Italia, equiparandoli a situazioni legalizzate deputate allo spaccio di droga.
Ecco una piccola retrospettiva di quei mesi caotici che hanno rischiato di mettere in ginocchio un settore.
Le ragione dell’opposizione
La notizia della possibile chiusura dei negozi di cannabis light ha immediatamente aizzato consumatori e commercianti, che hanno subito fatto quadrato, con due motivazioni principali.
La prima di ordine scientifico: il THC presente nella marijuana light è talmente basso (massimo lo 0,2%, o 0,6% per chi ne avesse fatto dichiarazione alle forze dell’ordine) da non poter avere né effetti psicoattivi, né effetti dannosi sulla salute.
La seconda di ordine economico: solamente nel nostro paese il settore produce 150 milioni di euro l’anno ed impiega circa 10.000 lavoratori, in larghissima parte sotto i 40 anni.
La mediazione
Il provvedimento è arrivato in primavera nelle mani dei prefetti di tutta Italia. In sostanza, i punti su cui si focalizzava, erano tre:
- Era necessario incrementare i controlli sui rivenditori di marijuana light: la mossa è stata venduta come un semplice scrupolo precauzionale, ma i commercianti hanno protestato di essere stati volontariamente messi in una posizione di sfiducia agli occhi degli altri negozianti e dei clienti, che non avrebbero mai subito un controllo in un negozio di abbigliamento o un’edicola
- Era necessario scoraggiare la vendita di infiorescenze, perché potenzialmente atte al fumo e dunque all’uso ricreativo, non esplicitamente permesso dalla legge in vigore (che prevede invece la possibilità di vendere e acquistare articoli cosmetici, prodotti industriali o da collezione)
- I negozi posizionati a meno di 500 metri da scuole, asili, ospedali, parchi giochi dovevano essere chiusi, come avviene con le sale da gioco d’azzardo
Insomma: all’orizzonte non sembravano profilarsi chiusure “una ad una” come ventilato dall’ex ministro, ma una situazione da stato di polizia davvero sgradevole per i negozianti e per i consumatori.
Il report del 30 giugno
Il 30 giugno era la data ultima per l’invio dei report sulle verifiche e i controlli effettuati sul territorio. La stretta ha provocato numerose chiusure preventive, test sulla merce, sequestri: per la maggior parte dovuti allo sforamento del limite massimo di THC presente nella sostanza.
Viene da chiedersi, però, come può un commerciante verificarla direttamente: l’unica certificazione a sua disposizione sono i report delle analisi effettuate dal proprio rivenditore. Acquistare uno spettrometro e avere nello staff un dipendente che lo sappia usare sarebbe una spesa illogica per una piccola attività.
Cosa è successo dopo il 30 giugno? Il Governo era troppo impegnato a non cadere (cosa che poi è accaduta, poche settimane dopo) per darsi pena sulla marijuana light o sull’esito dei report delle polizie locali e dei prefetti. E appena sei mesi dopo, durante il lockdown nazionale a causa della pandemia da Covid-19, le vendite online e le consegne a domicilio di marijuana light sono schizzate alle stelle. Il 2019 è stato decisamente un anno nero per queste attività, ma che non è stato in grado di spezzare un mercato ormai fiorente e solido.